melbourne dry cleaners

sabato 21 agosto 2010

Giorgiana Masi

Giorgiana Masi (1958 – Roma, 12 maggio 1977) è stata una studentessa italiana uccisa a diciannove anni durante una manifestazione di piazza.

Giorgiana Masi, fotografia dal documento d’identità. Poliziotto in borghese armato fotografato durante gli scontri, alla sua destra un agente in divisa
A distanza di 33 anni non sono ancora stati individuati i responsabili dell’assassinio.
Giorgiana Masi 1977





Di carcere, d'estate. A Massimo Papini, detenuto per non aver avuto paura della parola "Br"

Alla fine di questo mese Massimo compirà gli anni. Non mi ricordo nemmeno quanti, ma ad occhio e croce 35. Da più di dieci mesi Massimo è in carcere, accusato di associazione sovversiva. Br, quella è la sigla, E a distanza di decenni, fa talmente tanta paura che nessuno dice una parola su di lui. Il Tribunale del riesame a giugno gli ha rifiutato la libertà, e lui resta dentro, colpevole di aver amato, a vent'anni o giù di lì, una ragazza che nelle Br, per sua stessa ammissione, c'è finita davvero. Fragile lei, e lui, che le era restato amico, messo dentro per farle pressione. Ai giudici piacciono le parole, ma lei ne ha dette poche: semplicemente, si è uccisa, come il povero Miché.
Poteva, quello stesso giudice, liberare Massimo? Ammettere di averlo usato come arma, spuntata e inutile, verso una donna che invano gli avvocati avevano chiesto di portare in ospedale? In un Paese di immemori, di spaventati e codardi, si resta in carcere persino per meno di questo. Si rischia di restarci per anni, con una vita fuori che ti reclama, con il sole alle sbarre che picchia e un desiderio inutile di essere altrove. In una estate diversa da questa li ho conosciuti entrambi. A lei devo il dolore, a lui ancora l'amore, il ricordo di essere stati giovani insieme.

Un'altro pestaggio in carcere

 Un'altro pestaggio in carcere, questa volta a Tolmezzo (Udine), i secondini manganellano un ragazzo e  poi lo imbottiscono di psicofarmaci. Qui di seguito un comunicato di alcuni detenuti.

Tolmezzo 15/08/2010Noi detenuti della casa circondariale di Tolmezzo abbiamo deciso di scrivere questa lettera dopo l'ennesimo pestaggio avvenuto nelle carceri italiane.Dopo i casi di Marcello Lonzi a Livorno, di Stefano Cucchi a Roma e di Stefano Frapporti a Rovereto e di tanti, troppi altri in giro per la penisola, siamo costretti a vedere con i nostri occhi che la situazione carceraria in italia non è cambiata per niente.Mentre da una parte ci si aspetta dai detenuti silenzio e sottomissione per una situazione inumana (quasi 70.000 prigionieri a fronte di nemmeno 45.000 posti, percorsi di reinserimento sociale pressochè inesistenti, scarsissima assistenza sanitaria, fatiscenza delle strutture ecc...) si ha dall'altra il solito trattamento vessatorio da parte del personale penitenziario, non giustificabile con la solita scusa sulla scarsità di uomini e mezzi.Denunciamo quello che, ancora una volta, è successo venerdì 13 agosto proprio qui a Tolmezzo, dove un ragazzo, M.F., è stato picchiato con tanto di manganelli nella sezione infermeria.Se come per altre volte i protagonisti dell'aggressione erano, tra gli altri, graduati ormai noti ai detenuti per le loro provocazioni, l'altra costante è  stata la completa assenza del comandante delle guardie e della direttrice dell'istituto.La nostra situazione è fin troppo pesante per accettare la sottomissione fisica dopo quella psicologica.Per noi tacere oggi potrebbe voler dire ricevere bastonate domani se non fare la fine dei vari Stefano o Marcello domani l'altro.Noi non ci stiamo e con questa nostra ci rivolgiamo a chiunque nel cosidetto mondo libero voglia ascoltare, affinchè la nostra voce non cada morta all'interno di queste mura.
alcuni detenuti del carcere di Tolmezzo.

mercoledì 18 agosto 2010

Federico Aldrovandi

La polizia: "E' morto di overdose". I testimoni: "No, lo hanno pestato loro"
Checchino Antonini
Fonte: Liberazione 12 gennaio 2006
13 gennaio 2006
Un diciottenne muore a Ferrara pochi minuti dopo essere stato fermato dalla polizia dalle parti dell'Ippodromo. I giornali locali, a caldo, scrivono di un malore fatale, sembrano alludere a un'overdose. Ma subito saltano fuori particolari inquietanti e contraddizioni. La versione suggerita dalla questura fa a pugni con la relazione di servizio della squadra mobile. E chiunque vedrà il corpo del giovane non riuscirà più a credere a una sola parola della versione ufficiale.
Quello che stiamo per raccontare è successo all'alba del 25 settembre. Una domenica mattina. Ma la vicenda ha oltrepassato da pochissimi giorni le mura della città. Da quando la madre del ragazzo, dopo mesi di inutile attesa della relazione medica, ha deciso di aprire un blog e raccontare i propri dubbi.
Federico Aldrovandi aveva 18 anni, li aveva compiuti il 17 luglio. Viveva a Ferrara, periferia sud, zona di Via Bologna, avrebbe preso la patente la settimana successiva, studiava da perito elettrotecnico, suonava il clarinetto, faceva karate, era un mezzo campione vincitore di molte coppe, bravo in matematica e meno in inglese, impegnato in progetto con Asl e scuola per la prevenzione delle tossicodipendenze. Era un salutista, leggeva le etichette di quello che mangiava. E il sabato sera, con gli amici, andava spesso a Bologna: è lì che ci sono locali, concerti, centri sociali. Così era successo anche quella volta. Erano stati al Link, il concerto reggae era saltato ma la serata era filata via tranquilla. E' vero, Federico aveva preso qualcosa: uno "sniffo" di roba esilarante (una smart drug, naturale e non proibita) più un "francobollo" di Lsd. Nel suo sangue sono state trovate tracce di oppiacei e chetamina, poca roba, però. Nulla che giustificasse un'overdose o un comportamento aggressivo. E poi lui non era proprio un tipo aggressivo. La madre, gli amici, il parroco del quartiere, nessuno lo descrive come è stato descritto dalle veline di Via Ercole I D'Este, dove sta la polizia, e dalle dichiarazioni alla stampa. Erano appena passate le 5 quando il gruppo, tornato a Ferrara, si separa da Federico che decide di fare l'ultimo tratto a piedi, per rilassarsi, è ancora estate, si cammina volentieri. Andrea, Michi, "Burro" e gli altri non lo avrebbero rivisto più.
A questo punto comincia la versione della polizia. Il "contatto" avviene alle 5.47. Una volante sarebbe stata avvertita da una donna abitante in Via Ippodromo, preoccupata dalla presenza di un ragazzo che, forse, camminava in modo strano, forse cantando. Magari farneticava pure, come diranno gli agenti che dicono di averlo fermato e qualche minuto dopo, alle 6.10, avrebbero chiamato il 118.
Otto minuti dopo l'ambulanza lo trova già morto, a terra, con le manette ai polsi, a un passo dal cancello del galoppatoio. Non ci sono i margini per la rianimazione. Qualcosa o qualcuno ha causato l'arresto respiratorio che poi ha bloccato per sempre il cuore del ragazzo che camminava da solo, disarmato, che era incensurato, non stava compiendo alcun reato quella mattina e non aveva mai fatto male a nessuno.
La strada verrà bloccata per più di cinque ore. Nel quartiere si sparge la voce che è morto un albanese, oppure un drogato. O un drogato albanese.
A casa di Federico, alle 8 ci si accorge che il letto è vuoto. Il cellulare squilla invano quando sul display si illumina la parola "mamma". Pochi minuti dopo, quando è il padre a chiamare (ma sul telefonino è memorizzato col nome, Lino), una voce imperiosa intima di qualificarsi e spiega che stanno facendo accertamenti su un cellulare "trovato per strada". Solo verso le 11 si presenta una pattuglia a casa Aldrovandi e annuncia il fatto con poche, pochissime, parole. Lo zio paterno, Franco, 42 anni, infermiere, parte per l'obitorio. In macchina gli spiegano: "Ha preso qualcosa che gli ha fatto male". Ma il viso sfigurato, il sangue alla bocca e un'ecchimosi all'occhio destro fanno venire troppi dubbi. Poi si saprà di due ferite lacero-contuse dietro la testa, dello scroto schiacciato e di due petecchie - due lividi da compressione - sul collo. "Era una furia", ripetono gli agenti e i funzionari accennando a un comportamento autolesionistico del ragazzo. Dicono che avrebbe sbattuto la testa al muro ma non si troveranno mai tracce di cemento sul viso, né di sangue sui muri vicini. Lo zio e gli amici le cercheranno per giorni intorno alla pozza di sangue davanti all'ippodromo dove "Burro" lascia una poesia dedicata all'amico ma la polizia, così dicono i vicini di casa, gliela farà sparire pochi minuti dopo. Dicono anche, in questura, che sarebbe stato abbandonato dai suoi amici che, invece, respingono decisamente l'accusa. La felpa e il giubbino di quella sera, restituiti alla famiglia, sono intrisi di sangue. Il mattinale domenicale della questura spara subito la tesi del "malore fatale". Le indagini partono dal medico di famiglia a cui verranno chieste notizie sul "drogato", lo stesso si cercherà di fare con i compagni di Federico, convocati dalla narcotici e dalla mobile e torchiati con domande da film di serie B: "Lo sappiamo che siete tutti drogati, diteci dove comprate la roba". Anche a loro la solita versione: Federico sarebbe stato trovato su una panchina, ucciso da uno "schioppone", ossia da un malore. Ma il giorno dopo un giornale azzarda dei dubbi. La questura riesce a far calare il silenzio, chiede (e ottiene) di pubblicare sotto gli articoli sulla vicenda la storia di una maga condannata per calunnia alla polizia. E, stranamente, le indagini d'ufficio vengono assegnate dal pm proprio alla polizia. Vengono convocati i genitori, senza avvocato, per sentirsi ripetere la versione dell'overdose, della gioventù bruciata ecc... Il procuratore capo dirà perentorio che la morte non è stata causata dalle percosse anticipando l'esito di una autopsia, allora appena disposta, e non ancora resa nota. Anzi, per la quale è stata chiesta un'ennesima proroga.
La perizia tossicologica, però, smentisce la polizia. Dovrà essere l'autopsia a chiarire le circostanze. Il rapporto delle volanti svela che quattro agenti sono dovuti ricorrere alle cure del pronto soccorso: due sono usciti con una prognosi di sette giorni, gli altri addirittura di 20. Ma nessuno s'è fatto ricoverare. E' forse il primo caso nella storia della ps, di poliziotti aggrediti che non lo sbandierano ai quattro venti. Perché? Perché non ammettere la colluttazione? Federico si sarebbe difeso o ha aggredito? Perché usare le manette quando esistono procedure precise per sedare persone con funzioni respiratorie compromesse dall'uso di sostanze? Ci sono pure manganelli in questa storia. Uno addirittura s'è rotto quella mattina, probabilmente sulla schiena, sulle gambe e sul viso del ragazzo. I segni fanno pensare che fosse impugnato al rovescio. Il sangue sul vialetto e sui vestiti fa pensare che le botte sarebbero iniziate a piovere prima del luogo della morte. Forse lo inseguivano, forse urlava mentre fuggiva. Forse è per questo che sono stati chiamati i rinforzi: un'altra volante e una gazzella. "E' una calunnia inopportuna e gratuita. Non è neppure ipotizzabile che sia morto per le percosse - dice ancora a "Liberazione" Elio Graziano, questore di Ferrara - è stata una disgrazia, una vicenda penosissima, era in stato di esagitazione. Quando i "nostri" lo fermarono morì, ritengo per gli effetti delle sostanze. E poi ci sono i testimoni...". Già, i testimoni: quelli che si sentono in giro sono resoconti vaghi ed evasivi di persone che avrebbero sentito solo urla e sgommate. Ma Ferrara è una città piccola, tutti sanno tutto. Qualcuno ha visto Federico immobilizzato, a terra, col ginocchio di un agente puntato sulla schiena e un manganello sotto la gola mentre l'altra mano del tutore dell'ordine gli tirava i capelli. Il ragazzo sussultava, faceva salti di mezzo metro. A fianco a lui, una poliziotta si sarebbe vantata: "L'ho tirato giù io, 'sto stronzo!". Così avrebbe riferito un testimone, ragazzo sveglio e vivace, si dice, probabilmente immigrato, ma stranamente sparito di fretta dalla città. Anche sua madre ha visto tutto e non solo lei. Gli Aldrovandi sperano che il clamore della notizia su questo e altri giornali faccia tornare la memoria a qualcuno.
Nei corridoi della questura, la vicenda viene minimizzata ma il blog della signora Patrizia sta seminando preoccupazione e nervosismo. Si lascia trapelare a mezza voce che il ragazzo fosse un tossico e la sua una famiglia "problematica" seguita da un "prete di frontiera". Pare che anche un carabiniere della gazzella abbia esclamato alla vista del corpo: "Ecco il solito coglione di don Bedin!".
Domenico Bedin è il parroco di S. Agostino, prete coraggioso, fondatore di un'associazione che aiuta poveri (italiani e no), tossicodipendenti, giovani, migranti con o senza carte. La foto di Federico è infilata nella cornice dello specchio nel suo ingresso della canonica. Conosce gli Aldrovandi e i loro amici, "gente normalissima - conferma - e il ragazzo aveva un buon carattere e non era un tossico".
La città. "La città non ha reagito - continua don Bedin - non ha mostrato rabbia, né passione. Per i giovani è difficile trovare stimoli, sentirsi coinvolti in un progetto. Si vive una specie di attesa degli eventi, c'è chi viene a chiedermi informazioni ma sottovoce. La Bossi-Fini, che produce clandestinità, ha aumentato la tensione tra chi vive per strada. Lo hanno ammesso gli stessi carabinieri nel loro rapporto di fine d'anno". Il capo della mobile si vanta sulla stampa dell'aumento degli arresti ma "la città è sostanzialmente tranquilla - spiega Riccardo Venturi, uno dei legali della famiglia - ma l'ossessione sicuritaria viene follemente pompata, si scimmiotta Bologna con il terrore degli extracomunitari. Ma siamo una città dormitorio, senza fabbriche ma anche senza baraccopoli, una città che vive di se stessa". Una città che deve capire perché così tanta violenza e tante bugie contro il ragazzo che non aveva mai fatto male a nessuno. La famiglia, sua madre è impiegata al comune, suo padre è ispettore della polizia municipale, chiede solo di conoscere la verità e "che la sappiano tutti, senza fango su Federico". Rifondazione comunista, in città e in parlamento annuncia la presentazione di interrogazioni urgenti a firma della deputata Titti De Simone e della consigliera Irene Bregola. Sulle tv private il questore insiste: "L'intervento degli operatori è avvenuto al solo scopo di impedire al giovane di continuare a farsi del male". Missione fallita.

Nanni De Angelis

Al momento dell'arresto Nanni venne scambiato per Ciavardini e, pertanto, colpevole dell'omicidio dell'agente Serpico. Per questo venne massacrato di botte sul posto, mentre al commissariato venne fatto sfilare in un corridoio tra due ali di poliziotti (circa un centinaio) ed assalito.Ciavardini invece si salvò soltanto grazie al poliziotto che lo arrestò, il quale sparò due colpi di pistola in aria per farsi largo tra gli agenti che vorrebbero uccidere anche lui, ancora scambiato per l'amico che continuava ad essere colpito selvaggiamente.

Intorno alle 11 dello stesso mattino del 4 ottobre, i sanitari dell'ospedale San Giovanni, dopo aver visitato De Angelis, compilarono un referto medico che recò una prognosi di sette giorni (salvo ulteriori complicazioni) e ricovero in osservazione nel medesimo ospedale. Nanni venne invece inspiegabilmente dimesso dal San Giovanni la mattina del 5 ottobre e tradotto con un'ambulanza della Croce Rossa alla casa circondariale di Rebibbia e messo in isolamento, su disposizione di Guardata, locale procuratore della Repubblica.

Venti minuti dopo De Angelis fu trovato morto impiccato con un lenzuolo nella cella di isolamento n° 23 del carcere di Rebibbia.

Sui quotidiani di quel giorno si trovava la notizia degli arresti, ma soltanto la foto di Ciavardini, mentre per De Angelis c'era soltanto una foto della patente semi-irrisconoscibile di qualche anno prima.

La versione ufficiale parlò di suicidio, ma la famiglia annunciò passi legali e la stampa si pose numerose domande.

Nanni si sarebbe legato ad un termosifone con un lenzuolo, che secondo il regolamento carcerario egli non doveva avere in dotazione in quel momento, e si sarebbe impiccato stando in ginocchio e mantenendo il laccio teso con il collo proteso verso il basso.

Secondo i familiari Nanni ed il quotidiano La Repubblica, Nanni sarebbe dovuto inoltre rimanere in ospedale per almeno 72 ore in stato di osservazione, in quanto nella rissa con gli agenti aveva ricevuto un colpo alla testa. Ed a testimoniarlo c'è il referto per sette giorni di recovero assistito dell'ospedale San Giovanni.

Inoltre, dagli interrogatori di poliziotti, infermieri e dottori che compaiono davanti al magistrato, risulta che tutti abbiano affermato quasi con le stesse parole che Nanni aveva ferite di ogni genere, ma che stava psicologicamente bene, era tranquillo e non aveva manifestato alcun proposito suicida.

Altri particolari sono tragicomici e nessuno li trova incongrui, come ad esempio il fatto che De Angelis arrivò in carcere "a torso nudo" in pieno autunno.

L'autopsia, ordinata dal magistrato, fece cadere tutte le testimonianze dei medici del carcere e dell'ospedale, non attenuando la realtà del corpo devastato di Nanni:
« In corrispondenza della regione occipitale, sulla proiezione cutanea della protuberanza destra, soluzione di continuo, modicamente suturata con un punto in seta lungo centimetri 1,5 (cioè una prima ferita, ricucita). Sulla regione parietale sinistra centimetri 6, superiormente al sopracciglio, area escoriata in forma irregolarmente ovalare (cioè un livido ed un bozzo) di centimetri 4x2, in parte ricoperta da piccole creste ematiche e polvere bianca (medicazione). La coda del sopracciglio e interessata da una soluzione di continuo con margini irregolari, infiltrati, lunga centimetri 1 circa, suturata con punto di seta (cioè un'altra ferita). Il sopracciglio risulta discretamente tumefatto. Sulla proiezione cutanea della parte ossea dela naso, si apprezzano due escoriazioni di centimetri 2, l'anteriore, di centimetri 0,5 la posteriore. Dette escoriazioni si inseriscono in un'area ecchimiotica, in parte escoriata che interessa anche la prossima regione zigomatica. [...] Nella regionale latero-cervicale destra, soffusione ecchimiotica di forma irregolare rotondeggiante dell'ampiezza di centimetri 1,5 circa. »

(dal referto firmato dal dottor Silvio Merli e da altri due colleghi, responsabili dell'autopsia sul corpo di Nanni De Angelis)
« Al livello della settima e ottava costola tra l'ascellare anteriore e l'ascellare posteriore è interessata da un'area escoriata di centimetri 4. Altre escoriazioni di minore entità sono apprezzabili superiormente e inferiormente alla precedente. Altre interessano la proiezione cutanea della terza costola. Tenue soffusione verdognola in corrispondenzadella fossa iliaca sinistra [...] 4 centimetri. Due escoriazioni sulla linea ascellare. Altre escoriazioni sulla zona lombare. Sempre sulla zona lombare una cicatrice lunga centimetri 3,5 a decorso lievemente obliquo (la coltellata di piazza Annibaliano). Escoriazioni [...] sul terzo inferiore del braccio [...] anteriormente e posteriormente al gomito[...] sull'epitroclea [...] sulla regione antero-laterale della gamba. »

(dal referto firmato dal dottor Silvio Merli e da altri due colleghi, responsabili dell'autopsia sul corpo di Nanni De Angelis)

Inoltre i medici responsabili dell'autopsia rilevarono anche che all'ospedale San Giovanni, due ore circa dopo il fatto, Nanni venne dichiarato "in stato di incoscienza", prova di "uno stato di sofferenza del sistema nervoso centrale".

L'autista dell'ambulanza, Salvatore Serrao, testimoniò che "non ci fu consegnata alcuna certificazione medica, nè copia della cartella clinica".

Nessun supplemento d'indagine venne eseguito. La requisitoria si tenne in piena estate, il 17 agosto 1984. Archiviata senza processo.

RICCARDO RASMAN

RiccardoRasman.jpg  Riccardo Rasman era alto 1 metro e 85, pesava 120 chili ed era affetto da “sindrome schizofrenica paranoide”. Il 27 ottobre del 2006 muore nella propria casa di Trieste dopo l’intervento di due pattuglie della polizia, aveva 34 anni ed è morto per “asfissia da posizione” dopo aver subito lesioni e violenze da quattro poliziotti.

La sindrome di Riccardo iniziò durante la leva militare, durante il quale subì numerosi episodi di quello che viene banalmente definito “nonnismo”, ma che invece è un misto di violenza e prepotenza. E’ da lì che Rasman inizia a vivere con la paura delle divise. Nei video una bella video-inchiesta sul caso.

La sera del 27 ottobre 2006 l’intervento delle pattuglie avvenne dopo la segnalazione di “spari” provenienti dalla casa di Riccardo, erano petardi per festeggiare il nuovo lavoro da netturbino. Arrivano gli agenti che gli intimano di aprire la porta, lui si rifiuta per paura rannicchiandosi sul letto. Gli urla contro. Loro sfondano la porta e nessuno li ferma.

Riccardo è stato trovato con le manette e le mani dietro la schiena, filo di ferro alle caviglie, diverse ferite e con segni di “imbavagliamento con blocco totale o parziale della bocca, effettuato con un cordino o con qualcosa di simile. Questo imbavagliamento avrebbe causato una ulteriore restrizione, soprattutto della respirazione”. Anche se immobilizzato “esercitavano sul tronco, sia salendogli insieme o alternativamente sulla schiena, sia premendo con le ginocchia, un’eccessiva pressione che ne riduceva gravemente le capacità respiratorie”. Da lì la morte per asfissia. La perizia legale recita:

“per causare le lesioni riscontrate gli agenti hanno usato mezzi di offesa naturale in maniera indiscriminata anche verso parti del corpo potenzialmente molto delicate, ma anche oggetti contundenti come potevano essere il manico dell’ascia rinvenuta nell’alloggio o il piede di porco usato dai vigili del fuoco per forzare la porta d’ingresso. Gli stessi agenti hanno ammesso di averlo utilizzato contro il braccio destro di Riccardo”

Un caso legato inevitabilmente a quello di Federico Aldrovandi, anche per un avvocato in comune, Fabio Anselmo. Dopo due anni finalmente il processo.



martedì 17 agosto 2010

Ecco come è morto Carlo Giuliani

L'ESECUZIONE
La sequenza fotografica dell'assassinio di Carlo Giuliani

Genova, piazza Alimonda. Sono le ore 17.20 del 20/07/2001
foto1
Durante una delle feroci cariche effettuate nelle strade di Genova dalle forze dell'ordine (e qui siamo peraltro molto lontano dalla "zona rossa" intedetta), un gruppo di manifestanti reagisce, inverte la direzione di fuga e corre a viso aperto verso lo schieramento di uomini in divisa. Due jeep dei carabinieri a questo punto si muovono per abbandonare la piazza. La prima scende per la strada contigua e si ferma ad alcune decine di metri, nel punto dove stazionano in massa altri reparti di forze dell'ordine, con uomini e blindati. La seconda jeep urta contro un cassonetto rovesciato e si arresta. Ma il mezzo NON è incastrato in uno spazio stretto, come si vuole far credere. Potrebbe forzare la marcia contro l'ostacolo per aprirsi un varco (un cassonetto parzialmente pieno di immondizia non è un peso che possa bloccare un defender), oppure tentare una retromarcia. Ma l'autista non compie nessuna di queste manovre (che, come sarà chiarito più oltre in questa pagina, avrebbero richiesto pochi secondi). La jeep viene allora circondata da un gruppo di manifestanti. Il finestrino posteriore non esiste più, perché è stato sfondato a colpi di anfibio da uno dei militari presenti all'interno del mezzo per aprire un varco utile a colpire i manifestanti: contro questi ultimi viene lanciato un estintore dall'interno del mezzo. In questa foto, sulla sinistra, è possibile vedere due carabinieri chiamare rinforzi, che da immagini a campo largo si vedono essere massicciamente presenti a meno di 30 metri. Quindi è una menzogna anche quella secondo cui i manifestanti avrebbero assaltato una jeep isolata. Ma inspiegabilmente gli uomini della Celere stanno fermi, non intervengono.


foto2
Il carabiniere sul retro punta la pistola fuori dal finestrino posteriore. Il ragazzo con la felpa lo vede. Carlo Giuliani (il ragazzo in canottiera e con il passamontagna) forse non se ne accorge perché sta guardando a terra, dove probabilmente vede l'estintore che sta per raccogliere.


foto3
Il ragazzo con la felpa, impaurito dalla vista dell'arma, tenta di correre lontano dalla jeep. Sembra che gli altri manifestanti invece non si siano accorti della pistola puntata. Carlo Giuliani raccoglie l'estintore.


foto4
Carlo Giuliani ha ora l'estintore in mano, di fronte alla faccia del carabiniere. Si è accorto di essere sotto tiro di una pistola, e probabilmente vuole disarmare il carabiniere, o indurlo a mettere via l'arma. La mamma di Carlo, in seguito intervistata, legge nella mente del figlio una intenzione riassumibile in una frase tipo "ma che vuoi fare, con quella pistola? ma mettila via!"


foto4bis
IMPORTANTE: questa inquadratura laterale permette di valutare le reali distanze della scena, rivelando lo schiacciamento prospettico delle immagini scattate col teleobiettivo: nel momento in cui Carlo solleva l'estintore e sta per partire il colpo che lo uccide, si trova a circa quattro metri della camionetta. Questo vuol dire che il carabiniere a bordo sta per sparare - mirando deliberatamente alla testa di Carlo - senza essere particolarmente pressato da una aggressione ravvicinata o da situazione di rischio immediato per se stesso.


foto5
La pistola punta direttamente alla testa di Carlo. E' una spietata esecuzione.
Presa la mira, il carabiniere esplode due colpi, uno dei quali colpisce il ragazzo: entra sotto lo zigomo sinistro e fuoriesce dalla nuca. Sono le 17.27.


foto6
Carlo cade a terra, colpito. Il rinculo del colpo lo fa sbandare prima di cadere. In questo momento la jeep è ancora ferma contro al cassonetto.


foto7
L'autista fa retromarcia sul corpo di Carlo, che è ancora vivo. Il carabiniere che ha sparato si copre il volto con le mani.


foto8
L'autista ingrana la prima: passando per la seconda volta sul corpo di Carlo, il mezzo si muove di pochi metri in avanti, dove molti rinforzi stanno ad aspettare. Se erano così vicini, perchè è stato necessario sparare? E inoltre: dal momento dello sparo al momento in cui la jeep abbandona la scena, passano appena quattro secondi e mezzo. E quella sarebbe una jeep incastrata ed impossibilitata a muoversi? Perché la stessa repentina manovra non è stata effettuata prima?
Il carabiniere sulla sinistra si mette le mani sul casco, in stato di shock. A bordo della jeep, quello che ha sparato ora è visibile, indossa un passamontagna di quelli in dotazione da mettere sotto le maschere antigas. Ma non ha né maschera antigas, né casco. Anche l'autista indossa solo un passamontagna.


foto9

foto9a   foto9b
Carlo rimane sull'asfalto. Il suo cuore non ha ancora smesso di battere. Alcuni manifestanti si precipitano a soccorrerlo, cercando di evitare che si dissangui. Le forze dell'ordine ora intervengono in massa, e con violente cariche e lanci di lacrimogeni proibiscono a chiunque di avvicinarsi al luogo in cui lo Stato ha appena commesso uno spietato omicidio. Alcuni uomini in divisa lo prendono a calci, aggiungendo una brutale tortura a quella condanna a morte. Alcune testimonianze parlano anche di celerini che spengono le sigarette sul corpo di Carlo. Gli scontri attorno al corpo di Carlo proseguono per molte ore. Nel frattempo, con le prime dichiarazioni, le forze dell'ordine negano la responsabilità dell'accaduto. I filmati televisivi mostreranno il vice-questore della Polizia rincorrere un manifestante urlandogli "lo hai ucciso tu, con una pietra!", e questa è la pazzesca versione che gli responsabili di carabinieri e polizia tenteranno di accreditare, prima che queste immagini inizino a fare il giro delle agenzie e chiariscano a tutti da che parte è la verità.


clicca per ingrandire
Il personale della Pubblica Assistenza riesce ad entrare nel cerchio che le forze dell'ordine hanno eretto attorno al corpo di Carlo. Il cuore del ragazzo smette di battere. China su di lui, un'infermiera disperata si tiene la testa tra le mani. Non c'è più nulla da fare.

Dall'analisi di questa sequenza quindi ci si accorge che:
- La cosiddetta aggressione dei manifestanti alla camionetta poteva essere dispersa con l'intervento delle decine di uomini (bardati di tutto punto) presenti a pochi metri di distanza. Non si è trattato, come è stato fatto credere per giustificare il ricorso estremo alla pistola, di una offensiva a due singoli militari. La jeep non era né isolata né impossibilitata a manovrare.
- La situazione di rischio per i carabinieri presenti all'interno della jeep, derivante dall'assenza del lunotto posteriore, è stata determinata dalla assurda scelta dei militari stessi di infrangere il finestrino.
- Carlo si è avvicinato alla jeep a mani nude, e ha raccolto l'estintore dopo averne subito il lancio da parte del carabiniere. La sua è stata quindi una reazione a un gesto potenzialmente omicida compiuto dal militare.
- La scelta di ricorrere all'arma da parte del carabiniere è stata assolutamente indipendente dalla sua preoccupazione per le possibili conseguenze del gesto di Carlo, dato che il militare estrae la pistola e la punta sulla folla ben prima che il ragazzo raccolga l'estintore e lo rivolga verso la camionetta.
- Il carabiniere aveva tutto il tempo di utilizzare l'arma in maniera meno drastica, tentando un colpo in aria o - in ipotesi estrema - mirando a punti non vitali. Invece il militare, quando Carlo è ancora a diversi metri dalla camionetta, sceglie di mirare alla testa del ragazzo ed esplode due colpi.

Caro lettore,
già che sei arrivato fin qui ragiona un secondo: tu sei un carabiniere e ti trovi all'interno di una jeep chiusa. Hai dei facinorosi attorno, che sono a mani nude. Che cosa fai? Rompi a calci il finestrino, scagli fuori un estintore, estrai la pistola e la punti sulla folla, poi - quando un manifestante raccoglie l'estintore - prima ancora che costui si avvicini alla jeep miri alla testa (alla testa, cristo) e spari. E hanno il coraggio di chiamarla LEGITTIMA DIFESA!!!


A un anno di distanza, le forze dell'ordine invocano ricostruzioni che sfuggono alle più elementari leggi della balistica, oltre a contraddire clamorosamente ciò che è visibile in queste immagini, e parlano di uno sparo rivolto verso l'alto (!) e di un bizzarro proiettile che avrebbe rimbalzato contro un sasso volante (!!!) invertendo la direzione di marcia e puntando quindi accidentalmente alla testa di Carlo. Prima o poi ci racconteranno che in piazza Alimonda quel giorno c'era una banale esercitazione di tiro al piattello, e che Carlo ci si è trovato in mezzo...
Cliccate qui per leggere gli articoli su queste vergognose perizie propinateci dallo Stato italiano, e leggete la controinchiesta sulla morte di Carlo a cura di Sherwood.


foto10
"Hanno ucciso un ragazzo nella piazza dove sono nato"

Per non dimenticare Carlo Giuliani, 23 anni, assassinato dal regime italiano il 20 luglio 2001.



Questa è la testimonianza oculare di un amico di Carlo:

Ero piazza Alimonda il 20 luglio alle 17.
Ero con Carlo ed alcuni altri fratelli davanti al mezzo dei CC apparentemente "bloccato" tra cassonetto e non si sa bene cosa.
Eravamo in pochi lì davanti, una dozzina forse, e la nostra attenzione non era proprio rivolta verso il fuoristrada dei carabinieri bensì verso il plotone di celerini che, maschera antigas indossata, lanciavano pietre e puntavano fucili verso i manifestanti.
I secondi scorrevano istante per istante, fotogramma per fotogramma.
Mi ha fin da subito stupito che quella jeep e chi era rimasto dentro (ho ben chiara l'immagine di un carrubba che ha il tempo di uscire e di raggiungere gli altri) facessero "cose strane": prima ancora che un paio di compagni si avvicinassero ai finestrini lato manifestanti, il carabiniere all'interno colpiva ripetutamente a suon di anfibio il lunotto posteriore del fuoristrada cercando di romperlo.
Ho visto chiaramente l'anfibio del militare sfondare il vetro posteriore della jeep.
E' stato proprio questo gesto inconsueto, apparentemente non comprensibile che mi ha fatto istintivamente allontanare e correre sul sagrato della chiesa.
Mentre correvo verso il muro della chiesa avevo gia' la sensazione di ripararmi da qualcosa che non erano pietre o lacrimogeni.
Ero appena rientrato dalla testa del corteo disobbediente che cercava di difendersi dalla brutale e inarrestabile violenza dei celerini che caricavano la gente con blindati, sassi e lacrimogeni e avevo gia' visto quelle camionette CC che arretravano in retromarcia con la portiera aperta e la pistola puntata ad altezza d'uomo verso la folla.
Avevo gia' sentito pochi minuti prima quei suoni "diversi", quegli spari secchi e concisi che si distinguevano da quelli dei lacrimogeni. Ma non avevo ancora realizzato.
Quando mi sono girato, spalle al muro, verso la strada ho visto il corpo che giaceva immobile per terra. Il mio respiro e il mio tempo si erano fermati. Mi sono precipitato sul corpo urlandomi dentro: "Non e' possibile! Perchè??! Perchè??!!".
Mi sono fermato un'istante che non finiva mai guardando Carlo, poi mi sono girato verso quegli assassini in divisa che indicavano il corpo coi manganelli e che cominciavano a correre verso di noi urlando.
Sono corso via con le lacrime in volto, con la morte dentro e con quegli spari che mi rimbalzavano nei timpani.
Ho visto la testa zampillare di sangue, e poteva essere la mia.
Ho visto un corpo trucidato dal piombo, e poteva essere il mio.
Ho visto un fratello cadere...era un mio fratello!!!
Carlo era uno di noi.
VERITA' SULL'OMICIDIO DI CARLO.
VERITA' SUI FATTI DI GENOVA.

Testo integrale dell’intervista a Mario Placanica, Voi cosa ne pensate?

Quando sei arrivato a Genova?
Siamo arrivati il 17 luglio.
A quale reparto eri stato assegnato?
Ero con il dodicesimo battaglione Sicilia.
Da quanto tempo eri nel battaglione?
Da dicembre del 2000.
Avevi già svolto compiti di controllo dell’ordine pubblico?
Sì, un banale servizio d’ordine allo stadio di Palermo.
Arrivato a Genova che clima hai trovato?
Eravamo stanchi. Le operazioni di sistemazione sono state lunghe e snervanti.
Tra i colleghi vi confrontavate?
C’era una tensione indescrivibile.
Gli ufficiali tentavano di tranquillizzarvi?
I superiori gridavano sempre.
Che ordini vi sono stati impartiti per le giornate del G8?
Ci dicevano che le situazioni sarebbero state un po’ particolari, non come semplice ordine pubblico ma qualcosa di più.
In che senso?
Ci dicevano di stare attenti, ci raccontavano che ci avrebbero tirato le sacche di sangue infetto. Ci dicevano di attacchi terroristici. La sensazione era come se dovessimo andare in guerra.
Si è detto che per tenersi carichi alcuni fecero uso di droga.
Che io sappia no. Certo che c’era un’agitazione fuori dalla norma. Può darsi anche questo. Io non ne ho mai fatto uso.
Quella mattina del 20 luglio dove sei stato dislocato?
Ci hanno posizionato vicino la "Fiera" insieme ad alcuni poliziotti. Ci sono state delle cariche sul lungomare, ma solo di alleggerimento. Abbiamo partecipato alle cariche in cui venne dato alle fiamme il blindato dei carabinieri. In quella situazione mi è stato affidato il compito di sparare i lacrimogeni per disperdere i manifestanti. Però dopo un po’ il maggiore Cappello mi ha preso il lanciagranate perché diceva che non ero capace. Io stavo sparando a "parabola", così come mi è stato insegnato, e invece lui ha iniziato a sparare ad altezza d’uomo, colpendo in faccia le persone. Cose allucinanti.
Quando hai iniziato a sentirti male?
Io dovevo togliere il nastro ai lacrimogeni e passarli al maggiore Cappello. Quando si toglie il nastro fuoriesce un po’ di gas e quindi ho iniziato a sentirmi male. Così sono stato accompagnato in una via che conduce a piazza Alimonda. Sulla strada ho visto di tutto, ho visto picchiare a sangue dal colonnello Truglio e dal maggiore Cappello alcune persone con la macchina fotografica. Ho iniziato a vomitare e mi hanno fatto salire sulla camionetta.
Chi eravate sul Defender?
C’eravamo io, Cavataio, carabiniere in ferma biennale e, Raffone, un ausiliario seduto dietro insieme a me.
Nessuno che avesse esperienza?
Sì, eravamo solo noi.
Accanto avevate un’altra camionetta?
Si, c’era un altro defender con a bordo il colonnello Truglio. Il responsabile del nostro mezzo era il maggiore Cappello.
C’erano altri colleghi?
C’era il plotone dei carabinieri davanti a noi che ci faceva da scudo.
Dalle immagini si vede partire la carica dei manifestanti, tu cosa hai visto?
I carabinieri sono scappati, ci hanno superato, noi abbiamo fatto retromarcia e siamo rimasti incastrati contro un cassonetto della spazzatura.
Cosa ti ricordi di quei momenti?
Solo un rumore infernale.
Quando vi siete incagliati cosa hai pensato?
Ci hanno lasciato soli, ci hanno abbandonato. Potevano intervenire perché c’erano i carabinieri e anche gli agenti della polizia. Potevano fare una carica per disperdere i manifestanti e invece non hanno fatto niente. Quel momento è durato una vita.
Quando hai estratto la pistola?
Quando mi sono visto il sangue sulle mani. Ero stato colpito alla testa. Ho tolto la pistola e ho caricato.
Cosa vedevi davanti a te?
Non vedevo praticamente nulla, ero quasi steso, solo Raffone era un po’ più alzato. Mi è arrivato l’estintore sullo stinco, scalciando con i piedi l’ho ributtato giù. Loro continuavano con questo lancio di oggetti, io ho gridato che avrei sparato. Poi ho sparato in aria.
Sei convinto di aver sparato in aria?
Sono convinto di aver sparato in aria, non ho preso mira, è la verita.
Quanti colpi hai sparato?
Due colpi, tutti e due in aria.
Eri seduto?
Ero steso, con il braccio alzato verso l’alto, all’interno del defender. La mano era sopra la ruota di scorta del Defender.
Hai sentito solo i tuoi due colpi?
Sì. Dopo i due spari sul defender è salito un altro carabiniere che si chiama Rando di Messina e ha messo lo scudo sul vetro che avevano rotto. Davanti è salito un maresciallo dei Tuscania di cui non ricordo il nome. E siamo partiti. Eravamo diretti all’ospedale ma abbiamo dovuto allungare il percorso perché sulla strada c’erano i manifestanti, quelli di Agnoletto, che non volevano farci passare. Al pronto soccorso mi hanno ricoverato perché avevo perso molto sangue.
Non vi siete accorti di quello che era successo a piazza Alimonda?
No. Ho saputo della morte di Carlo Giuliani alle 23 quando sono venuti in ospedale i carabinieri con un maggiore. Però non mi hanno comunicato la notizia in ospedale. Mi hanno fatto dimettere, mi hanno fatto firmare la cartella e mi hanno portato in caserma. Lì mi hanno detto che avevo ucciso un manifestante.
Come ti sei sentito in quel momento?
Mi è caduto il mondo addosso. Io sapevo di aver sparato però ero convinto anche di aver sparato in aria. Mi hanno fatto l’interrogatorio, mi hanno messo sotto pressione e io ho risposto quello che potevo rispondere. Hanno cercato di farmi dire qualcosa in più, ma io l’ho detto che non avevo sparato direttamente.
Quanto è durato l’interrogatorio?
Un’ora circa, intorno a mezzanotte.
E dopo cosa è successo?
Mi hanno riportato alla fiera di Genova. Mi hanno fatto dare sette giorni di prognosi.
Che ambiente hai trovato quando sei rientrato in caserma?
Mi chiamavano il killer. I colleghi hanno fatto festa, mi hanno regalato un basco dei Tuscania, "benvenuto tra gli assassini" mi hanno detto.
I colleghi erano contenti di quello che era capitato?
Si, erano contenti. Dicevano morte sua vita mia, cantavano canzoni. Hanno fatto una canzone su Carlo Giuliani.
Tu come ti sentivi?
Io ero assente, non volevo stare con nessuno, mi sentivo troppo male.
Dopo tre giorni ti hanno mandato a Palermo
Ero felice di lasciare quel posto. Però appena arrivato in Sicilia sceso dall’autobus il colonnello mi ha preso a schiaffi.
Perché?
Forse per scrollarmi un po’, ma non lo so.
A Palermo come ti hanno accolto i colleghi?
Tutti mi chiedevano, si informavano. Non ti dico che pressione psicologica.
Ma a casa quando sei tornato?
Dopo una settimana che ero a Palermo mi hanno dato trenta giorni di convalescenza. Però mi hanno mandato nella caserma di Sellia e i miei genitori non potevano entrare. Mio padre tra l’altro era ricoverato in ospedale a Catanzaro. Io uscivo di nascosto, ma a Catanzaro non sono riuscito a salire.
Che idea ti sei fatto, era per proteggerti o perché non volevano che parlassi all’esterno?
Non lo so se mi proteggevano o avevano paura di qualcosa. Anche perché subito in quei giorni mi hanno messo gli psicologi per farmi controllare. Ma io che malattia avevo...
Certo che accettare di aver ucciso un ragazzo...
Ma io non ero sicuro di averlo ucciso. Mi venivano i dubbi perché se io ho sparato in aria come fanno a dire che l’ho colpito in faccia, che sono un cecchino.
Avevi sparato prima di quel giorno?
Tre volte al poligono e non ti dico i risultati, non ne ho preso uno. Non ero buono con la pistola anche per questo mi hanno mandato al battaglione. Alle stazioni mandano quelli più bravi, gli altri vanno nei battaglioni.
Dopo Sellia ritorni in Sicilia...
Lì sono iniziati i problemi. Perché tutte quelle domande erano uno stress incredibile. Insomma ho iniziato a marcare visita. Mi hanno trasferito a Catanzaro al reparto comando, poi sono andato a un corso integrativo in Sardegna. Ma anche lì continuavano le domande e non ho neanche finito il corso. Sono tornato in Calabria e per due anni ho iniziato a lavorare a singhiozzo.
In questo periodo ti capita un altro episodio che ha fatto discutere. Ti salvi quasi miracolosamente da un incidente stradale.
Ho perso improvvisamente il controllo del veicolo. Lo sterzo è come se si fosse bloccato, non riuscivo più a sterzare.
Dopo questo periodo difficile però inizi a sentirti meglio e il 22 novembre 2004 ti sottoponi a una visita psichiatrica all’ospedale militare per tornare in servizio
Era parecchio che non lavoravo, mi sentivo di voler riprendere, ero più sereno, mi ero appena fidanzato. Il dottore Pagnotta dell’ospedale militare dopo avermi esaminato mi dice che ero idoneo. Porto il certificato in commissione medica e invece i tre ufficiali della commissione non ne tengono conto e mi dicono che mi fanno fare un’altra visita.
Perché un’altra visita?
Non me lo hanno detto. Mi hanno mandato dalla dottoressa Vittorina Palazzo. Secondo me avevano già deciso di congedarmi. Con la dottoressa ci eravamo già visti a Villa Bianca. Io ero andato perché prendevo delle gocce per dormire. Lei invece, senza visitarmi, mi ha fatto prendere l’Aldol. Dormivo venti ore al giorno, mi ha rovinato, non me lo doveva dare.
Fai quest’altra visita il 13 dicembre del 2004 e cosa succede?
La dottoressa mi ha dichiarato non idoneo. Mi è caduto il mondo addosso.
Potevi però chiedere di essere destinato agli uffici?
Me lo hanno consigliato loro di fare domanda e io l’ho fatto. Non l’hanno accolta perché non ero inquadrato nella forza dell’Arma, perché ero ancora in ferma volontaria. I quattro anni però erano già scaduti, ma non ne hanno tenuto conto.
Hai presentato ricorso al Tar?
Ma dicono che è innamissibile il mio rientro, hanno prodotto la mia domanda per i ruoli civili sostenendo che io ero già consapevole di voler andare in ufficio, quando invece sono stati loro a consigliarmi di farla. E non hanno tenuto conto della mia causa di servizio, a me spetta il ruolo civile.
Perché non ti vogliono più?
Sono un capro espiatorio usato per coprire qualcuno. Le porte sono chiuse per Placanica.
A logica però sarebbe stato più conveniente tenerti buono e non lasciarti solo?
Però se vengo congedato per problemi psichici chi mi crede! Per anni mi hanno sottoposto a uno stress psichico insopportabile. Mi hanno detto che i no global mi avrebbero ammazzato. Sono arrivati a dirmi che avrebbero ucciso mia moglie quando era incinta. Con il congedo che mi hanno dato chi mi darà un lavoro?
Eppure c’è una terza perizia...
Ho chiesto una perizia di parte effettuata da Mauro Notarangelo che ha certificato che io sto bene. Sono riuscito a ripulirmi da tutti i farmaci che mi hanno fatto prendere.
A distanza di cinque anni quale è il tuo pensiero su questa vicenda?
Credo che mi sono trovato in un ingranaggio più grande di me. Che ero nel posto sbagliato, non si potevano mandare ragazzi inesperti e armati in quella situazione.
Secondo te si è detta tutta la verità sul G8 di Genova?
No.
Cosa è rimasto all’oscuro?
Ci sono troppe cose che non sono chiare.
A cosa ti riferisci?
A quello che è successo dopo a piazza Alimonda. Perché alcuni militari hanno "lavorato" sul corpo di Giuliani? Perché gli hanno fracassato la testa con una pietra?
Hai posto queste domande ai tuoi superiori?
Una volta ho telefonato al maggiore Cappello. Lui mi ha detto che non dovevo avere dubbi. Però lui mi disse di aver saputo quanto successo la sera alle 20 e invece nelle immagini che ho rivisto si vede lui accanto al corpo di Giuliani. Io non ho sentito altri spari, però anche i colleghi che erano dentro al defender non hanno sentito i miei colpi. Ritengo che cremare il corpo di Giuliani sia stato un errore, forse si sarebbe potuto scoprire di più, qualcosa sul corpo forse c’era.
Sei alla ricerca della verità?
Si. Come fanno a dire che l’ho sparato in faccia. Non è vero. È impossibile. Non potevo colpire Giuliani. Ho sparato sopra la ruota di scorta del defender.
Perché hai deciso di parlare solo adesso?
Perché ci vuole coraggio e io finalmente l’ho trovato. Merito anche dell’avvocato a cui mi sono rivolto, Antonio Ludovico, che mi ha sempre sostenuto e mi ha consigliato di non aver paura della verità.

lunedì 16 agosto 2010

Cucchi, Uva, Aldrovandi, familiari insieme: tanti casi come loro, vogliamo giustizia

ROMA (11 giugno) - Lucia Uva, Patrizia Aldrovandi e Ilaria Cucchi, parenti di tre uomini deceduti in carcere o in ospedale dopo essere stati fermati dalle forze dell'ordine, sono salite insieme sul palco a Varese, per raccontare le loro storie e lanciare un appello: «Che sia fatta luce su quello che è successo». Con loro il legale Fabio Anselmo, che si è occupato dei tre casi, e Luigi Manconi, presidente dell'associazione "A buon diritto". Ilaria Cucchi, sorella del 31enne deceduto il 31 ottobre nel carcere romano di Regina Coeli, ha detto che «ci sono tanti casi come quello di Stefano, ma ci aspettiamo che su tutti venga fatta chiarezza, perché le cose devono cambiare».

Una richiesta condivisa anche da Lucia Uva, la sorella di Giuseppe, l'artigiano morto in ospedale a Varese dopo aver trascorso la notte nella caserma dei carabinieri. All'indomani del processo che si è aperto mercoledì contro i due medici accusati di omicidio colposo per aver somministrato a Giuseppe Uva farmaci incompatibili con il suo stato, Lucia Uva dice: «Voglio sapere che cosa è successo quella notte in caserma, perché non ci credo che mio fratello si sia fatto male da solo».

Gli interventi sono stati accolti dagli applausi del pubblico, commosso quando Patrizia Aldrovandi ha raccontato della morte del figlio Federico, deceduto a 18 anni dopo essere stato fermato dalla polizia a Ferrara. «L'unica cosa che faremo - ha detto - è continuare a raccontare quello che è successo».

«L'onore delle forze dell'ordine, nel caso Aldrovandi - ha concluso l'ex senatore Manconi - è stato salvato dalla giustizia che, individuando irresponsabili, ha liberato l'intero corpo da accuse indistinte e generalizzate».

Vergognatevi

Mestiere di merda